Le luci strobo, la musica, il fumo. Dovunque. Divanetti che avevano visto migliaia di storie e quelle cazzo di storie, che beh, erano sempre le stesse. Danze di corpi, movimenti affannati. Desideri soppressi, parole finte e di circostanza. Lo stesso copione. Per quella sera e per tutte le altre. Lo stesso dannato film che cambiava soltanto gli attori, no, le comparse. Perché i protagonisti, quelle ragazze, regine del buio col buio nel cuore, quelle, beh, non cambiavano mai.
Come c’ero finito. Come cazzo c’ero finito. Quasi trentanni ed ero ancora un fottuto bambino. La notte una sconosciuta, mi serviva una guida. La notte una sconosciuta e poi dentro ad un amico l’avevo di colpo trovata. Steso sui divanetti. Fissando corpi flessuosi muoversi a ritmo come serpenti incantati. Gli occhi nascosti dal buio, avrei voluto vederli. Gli occhi nascosti dal buio, avrei voluto toccarli, guardarli,
leggerci dentro. Spiarli. Fissar quelle palle lucenti e poi l’abisso che dietro esisteva.
Era l’abisso di tutti ed io ero lì per curarlo. Era l’abisso di tutti ed in quell’istante, nemmeno guardavo quel cazzo di palco. Mi piombasti addosso, neanche il tempo di mettere a fuoco. Un vento, un turbine, un odore dolce e dei capelli nei quali avrei solo voluto annegare. Dialogammo a fatica, la musica alta, troppo alta per poterci parlare, e poi quello sguardo e quegli occhi e quel fottuto profumo. Non capivo niente. Avevo già perso.
Poi guardai il tuo viso e come rispondevi a certe carezze. Nel cuore pregavo, dentro ogni singolo battito, che non fosse la stessa storia di sempre. Le stesse dannate parole, giorno per giorno fino a consumarle. Fino a renderle vuote e prive di senso. Pregavo fosse diverso, il destino di colpo palese. Un cavallo bianco e poi forse anche Dio, appeso ad un palo da Lap Dance, lì pronto per offrirmi una chance.
Parlavo, parlavo, parlavo, senza riuscire a fermarmi. La mia mano su quelle gambe senza poter andare oltre. Quanto avrei voluto. Levarti di dosso ogni cosa, tenerti stretta e poi cadere perduto per sempre dentro il tuo calore. Ardevo, tremavo e bruciavo. Una fottuta candela esposta ad una brezza violenta proveniente dal mare. Era il cazzo di Paradiso senza per questo essere morti. Ed io volevo soltanto acciuffarlo un istante ancora. Tenerlo stretto per lunghi momenti. Serbarne un maledetto e persistente ricordo.
Voltai le spalle a quel lurido posto, tu in braccio ad un mostro con lunghi tentacoli ed io col cuore in fiamme senza una precisa ragione. Avrei voluto picchiarlo, era una pessima idea. Non ne ero capace e poi ne uscivo perennemente sconfitto. Inforcai la mia moto e guidai verso casa. La città vuota ed io che filavo veloce. Era il cazzo di Paradiso, ne vedevo le porte. Aveva il tuo volto. Ed io ero lì che scrivevo, scrivevo,
scrivevo, battevo come un forsennato su questi tasti. Ore sei del mattino.
Stavo soltanto cercando le fottute chiavi.