Uno scatto che potrebbe suscitare riflessioni.
Sono passate poche ore dalla distruzione perpetrata dai russi alla città di Bucha.
Dopo i militari, dopo i soccorsi, talvolta vani, sbarcano i reporter della stampa internazionale.
Scorgono, tra morte, sangue, palpabile terrore insidiatosi nell’aria, un gatto.
O meglio, lui è in centro a quel che resta di una via di una zona residenziale messa a ferro e fuoco dai combattimenti.
Si accucciano, con le loro macchine fotografiche, chi con il telefonino, per fotografarlo.
Un reporter vede la scena e la coglie. Così, scatta un’istantanea e la divulga.
Il tutto in un istante, quasi il raziocinio e l’istinto lo comandino a cogliere la scena, abbia essa, probabilmente, un significato. Quale, non si sa.
Di certo, tra chi urla agli orrori, tra chi muore, chi piange i propri cari, chi li cerca, chi scappa, tra chi si siede nei talk show e nei salotti politici a prender posizione ideologica, tra chi difende l’una o l’altra Nazione per pensiero politico, tra chi non sa neppure, per quale ideale, abbia perso la famiglia e la casa, tra chi pensa che l’Ucraina e la Russia siano troppo distanti per rovinare la propria quotidianità conquistata a suon di ore di lavoro, tra tutti noi, spunta il Gatto di Bucha.
Lui non ci ucciderà, non sparerà, non comminerà sanzioni. Forse, sopravvivrà.
Forse, guarda quei giornalisti stupiti e vorrebbe far capire che questa catastrofe è un po’ anche colpa loro, perché essere umani, perché, in fin dei conti, anteposto per decenni l’interesse economico generale per garantire il benessere comune, solo noi umani potevamo perdere i valori fondamentali della vita e della sopravvivenza.
E chissà quanti gatti dovranno ancora spuntare dall’orrore, per farci crescere dentro qualche sussulto al cuore, qualche sentimento che non sia solo sdegno ma consolidata consapevolezza che, in fin dei conti, siamo stati anche noi a lasciare quel gatto lì, solo.
Gianluca Longo