Lamentarsi è quella pratica comune in cui nessuno vuole riconoscersi. Per quanto odiamo essere percepiti come una lagna, è facile lasciarsi andare a questa attitudine. Chi non ha mai parlato male del proprio collega o si è crucciato della relazione con il proprio compagno, scagli la prima pietra. Se anche di primo acchito vomitare verbalmente di ciò che non ci aggrada può sembrarci un atto inutile e perfino dannoso, sentirne un incessante bisogno potrebbe essere il segnale di una sua propria utilità.
Quando siamo in una circostanza stressante, inizialmente l’unico atteggiamento pertinente sembra quello di esprimere come questa situazione non ci vada a genio. E basta. La nostra mente si fa satura di quella negatività e rigurgitarla potrebbe essere un semplice approccio per liberarcene. Eppure ci si altera con se stessi per il semplice atto di compierlo, e con gli altri, quando non vedono la ragione di questo nostro comportamento.
Portare il lutto è simile. Quando perdiamo qualcuno, come sta capitando a molti in questa pandemia, sentiamo la necessità di disperarci, e disperandocene, parlarne. Dato che alla morte non c’è soluzione, ciò che ci resta è confutarne, o in altre parole, lamentarci, di un atto ineluttabile.
Quando ci lamentiamo, comunicare come tale circostanza ci alteri emotivamente ci fa sentire in controllo di qualcosa di cui probabilmente non abbiamo nessuno controllo. Quando quel collega ci tratta come se fossimo dei subordinati incompetenti, quasi sicuramente non siamo ancora (se mai) pronti per affrontarlo con un dialogo sincero e diretto, e in fin dei conti, non possiamo cambiare il comportamento di qualcun altro. Quando il nostro compagno non ci tratta con adeguata attenzione non possiamo costringerlo a fare altrimenti, e nemmeno ci sembra sensato cercare di convincerlo a fare diversamente.
Lamentarsi diventa quindi quella comoda pratica che ci fa sentire in controllo in un mondo di cui controlliamo ben poco, o meglio, solo noi stessi. Se non possiamo cambiare gli altri, o una circostanza come la morte, quello che ci rimane è comunicare a un amico come questo non ci renda affatto contenti. Non cambia la realtà, ma potrebbe aiutarci a mettercela da parte e accettare la realtà per com’è.
Per chi ascolta, l’impulso più seducente è quello pragmatico: amiamo dare soluzioni a chi è disperato. Questa pratica ha raramente successo. Quando si è sotto stress o in lutto, non solo il corpo, ma anche la mente, si irrigidisce e si è meno flessibili. Si cerca di liberarsi di una certa pena e non se ne vuole sapere di adottare una soluzione. È come cercare di inalare ossigeno ancora prima di avere buttato fuori aria dai polmoni. Per chi si fa confidente a coloro che soffrono, la tattica vincente è quella di ascoltare e annuire con condiscendenza. Capire quando è il momento adeguato di dare soluzioni può essere la sola soluzione per essere di aiuto. Per chi sta soffrendo o è sotto stress, lamentarsi può essere invece il primo passo verso la guarigione. Fintantoché, quando la pena se n’è andata, si è aperti a una soluzione.