Che ogni moto rivoluzionario abbia necessità di supporti è certo, senza scomodare Masaniello oltre ogni metafora, ma andiamo per gradi.
Quaranta anni fa, quando la Sony il 1° luglio del 1979 lanciò sul mercato il primo Walkman, subito si rivelò immediatamente uno strumento formidabile, senza il quale oggi non gireremmo tra decibel, hit e tormentoni con la musica addosso, sempre con noi, compagna fedele e ossequiosa.
Walkman appunto, come un uomo che cammina, con la musica che fa da colonna sonora alle azioni, il mondo visto attraverso il suono.
Dopo il successo inarrestabile in Giappone, arrivarono Europa e Stati Uniti che confermarono come quelle due cuffiette di spugna piacevano e diventarono subito oggetto di culto, imitato e venerato.
Il culmine della popolarità arrivò nel 1980, quando Sophie Marceau le indossò in una pellicola iconica “Il tempo delle mele” ascoltando un lento, mentre tutti intorno ballavano dance, diverranno tracce di cinema che sarebbe poi approdato a fenomeno di costume che segnò un’epoca.
La rivoluzione appunto, la musica seguiva l’uomo, e l’attività sportiva che si approprio’ di default in questa nuova dimensione era il jogging, in tutto il mondo oggi si ama correre con playlist e Spotify.
Prima del Walkman le cuffie erano di un’unica proprietà, ossia tecnici audio e produttori, musicisti, e tutto rimaneva chiuso, nello stretto circuito.
Negli anni i pensieri di sociologi e critici si sono sprecati nel demolire questo elemento caratteristico dell’armamentario quotidiano delle nuove generazioni, imprecando alla solitudine e al desiderio di disconnessione dal mondo intero.
Forse la studiosa di media Sherry Turkle intitolando un suo celebre saggio “Insieme ma soli” ne avrebbe decretato il sunto.
Fino al prossimo soffice auricolare.
Mauro Lama