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“Venezia Pesce di Pace”: dove tutto ebbe inizio

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Intervista a Nadia De Lazzari, Presidente dell’Associazione “Venezia: Pesce di Pace”
 
«Sentivo che una lettera era importante per loro». Conclude così Nadia De Lazzari, Presidente dell’Associazione “Venezia: Pesce di Pace”, all’ultima domanda di questa intervista.
Ma facciamo un passo indietro e torniamo al 1992. È l’una in punto di un mercoledì d’aprile. La tavola profuma di pasta al sugo e una leggera brezza lagunare entra sicura dalle finestre. A interrompere le avide forchettate è il notiziario delle tredici con un altro bollettino di guerra. Le forze serbe continuano ad avanzare, trascinando nella trappola umana Sarajevo e tutta la Bosnia Erzegovina. «Allora ero una giovane ragazza, vivevo con i miei genitori e quando le tv nazionali passavano le immagini del conflitto nei Balcani i nostri pensieri andavano a tutte quelle persone che continuavano a vivere, se non sopravvivere, a una quotidianità incerta. Sono stati l’educazione familiare e lo spirito tenace a farmi dire: “Io parto”».
 
Ottenuto, dunque, un pass come giornalista da TeleVenezia, ad attenderla a Falconara era il cargo umanitario C-130, che in 45 minuti di volo l’avrebbe portata nel cuore pulsante della piana di Sarajevo. «Mi ero portata una bicicletta e con quella giravo per le strade distribuendo la posta alle famiglie. Per lo più erano lettere dei loro cari, che scrivevano dai campi profughi della Croce Rossa italiana. Quello più vicino a noi si trovava a Jesolo. Ma nel mio zaino da 50 kg portavo anche medicinali, abbigliamento, scarpe e coperte di lana fatte a maglia dalle detenute del carcere della Giudecca e da tante nonne veneziane».
 
Continua la De Lazzari, soffermandosi sullo sguardo dei più piccoli: «Cosa facevano i bambini? Si divertivano sotto casa, spesso lanciando sassi e così emulando il gioco più grande degli adulti». Nelle scuole la direzione scolastica aveva invitato le insegnanti a truccarsi molto, ancora più della normalità, a sorridere nonostante tutto. Perché l’obiettivo era uno solo: far vedere ai ragazzi il lato bello della vita. Così, nelle aule sparivano anche i buchi delle granate, tappati dai loro disegni. «Quando andavo a trovarli, mi piaceva portar loro un sacchetto con dei pesci rossi, come simbolo di Venezia, che, vista dall’alto, appare proprio a forma di pesce (diventato poi logo dell’Associazione). Ricordo che un giorno entrai in una classe per lasciare questo piccolo dono e dai banchi mi si avvicinò un bambino. Andò verso una parete della stanza, tappezzata di questi disegni, e ne tolse uno per regalarmelo». Quel giorno era l’11 novembre, San Martino, e nella memoria del santo che divise il proprio mantello per coprire un pover’uomo, Nadia, sentì il bisogno del sostegno della sua città Venezia.
 
Fissato quindi l’incontro con il Primo Cittadino di allora Massimo Cacciari, a lui propose il progettoVenezia: Pesce di Pace” con l’iniziativa dei “Disegni A4 mani”, piccoli disegni realizzati nello stesso foglio, piegato in due, ma in circostanze diverse. In quello spazio, infatti, si sarebbero confrontate le impressioni di bambini che, abitando a Venezia, vivevano nella sicurezza della pace e di chi, invece, a Sarajevo era prigioniero della guerra. Un progetto culturale, sentito più come un messaggio di fratellanza e disponibilità. «C’è un disegno che non ho mai dimenticato e lo ritengo significativo per la differenza delle due condizioni di vita. In una parte del foglio, la metà di un campo da calcio con il prato verde e i giocatori nelle loro postazioni di ruolo, nell’altra metà solo un campo con dei buchi». Racconta così Nadia De Lazzari l’esordio di quel progetto che il prossimo anno festeggerà trent’anni di instancabile attività.
Sempre sostenuto dalle istituzioni, il primo a crederci fu proprio Cacciari, che da quell’incontro decise il gemellaggio con la capitale bosniaca. Unica autorità italiana entrata a Sarajevo in tempo di guerra, l’ex sindaco di Venezia presenziò non solo agli incontri ufficiali, organizzati sempre dalla De Lazzari, ma anche a quelli ufficiosi, incontrando la famiglia da cui era ospite la stessa Nadia.
Di questo passo, l’iniziativa “Disegni A4 mani”, supportata anche dalla Caritas Diocesana di Venezia, si tradusse presto in un aiuto concreto. Tutti i disegni e le riflessioni in tre lingue (italiano, bosniaco, inglese) furono raccolti in uno speciale diario scolastico, donato nelle scuole elementari delle province del Veneto e in Sarajevo, tramite sette convogli umanitari. Ad aprire l’agenda dei più piccoli, il discorso dell’ambasciatore italiano Vittorio Pennarola.
 

 

 
È, dunque, un pesce che dal ’92 non ha mai smesso di nuotare e se questa è stata la sua prima missione, nel 2020 il progetto “Venezia: Pesce di Pace” ha inaugurato la 14° edizione dei “Disegni a 1000 mani” Venezia-Beirut. Coinvolti bambini, insegnanti, genitori libanesi e italiani, ma anche 14 artisti, che hanno deciso di realizzare ognuno metà opera nello stesso foglio. Un altro gesto di solidarietà e vicinanza, che vuole essere anche la risposta a questo tempo difficile di pandemia, dove spesso lontananza fa rima con solitudine. Sempre più riconosciuta dalle istituzioni, l’iniziativa ha ricevuto il sostegno di Apv Investimenti, oltre che il plauso del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia e del Segretario di Stato Cardinale Pietro Parolin. «Tutti i viaggi del Pesce di Pace nascono da microstorie, da piccole storie quotidiane di chi ha vissuto la guerra e nulla più di queste può farti capire cosa vuol dire perdere tutto».
 
Sono stata ad ascoltare le parole di Nadia con immacolato silenzio, ma, ripensando ai miei recenti viaggi a Sarajevo, c’era una cosa che non mi tornava. Lì le strade erano larghe, ampie, e i vicoli stretti dietro cui proteggersi si potevano contare sulle dita di una mano. Chiunque passasse per quella strada era un bersaglio facile dalle colline vicine. Quando le domandai se non avesse avuto paura di percorrere la città, mi rispose: «Quando sei dentro, non hai paura. La paura ce l’ha chi ti aspetta a casa e sta guardando le immagini dei servizi al telegiornale. Io sentivo che una lettera era importante per loro».
 

 

Giulia Soligon

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