Prosegue la rubrica “Arte, Cultura, Storia e Archeologia” curata da Carlo Franchini. Un viaggio alla scoperta delle bellezze, delle curiosità, del fascino dell’Italia e del mondo, di ieri e di oggi.
Testo di Nica Fiori
Foto e video di Carlo Franchini
Marino, uno dei più frequentati Castelli romani, situato sulla via dei Laghi a circa 24 km da Roma, è noto soprattutto per il suo vino e per la caratteristica posizione sul ciglio del cratere laziale che ha dato origine al lago di Albano. Il luogo, abitato fin dall’epoca preistorica, ha sempre presentato un notevole interesse archeologico, dimostrato dai risultati delle indagini condotte nei secoli passati e dal divieto imposto nel XVII e XVIII secolo dai Colonna, proprietari del territorio, di eseguirvi scavi non autorizzati e dalla riserva di proprietà su qualsiasi oggetto scoperto.
Il centro di Marino corrisponde probabilmente a quello dell’antica Castrimoenium, come fanno supporre le numerose iscrizioni rinvenute nei pressi, quantunque poco di questa località dicano gli storici antichi. Il suo nome deriva da un accampamento militare (castrum), che si sviluppò, ai tempi di Silla (I sec. a.C.), in una colonia compresa ai fini amministrativi nella tribù Falerna. Fiorente sotto Nerone e nel successivo II sec. d.C., con una regolare amministrazione municipale, è ricordata da Plinio il Vecchio nella sua descrizione degli abitanti dell’Italia.
Molti reperti archeologici di Marino sono conservati nel Museo Civico Umberto Mastroianni, che dal 2000 raccoglie i materiali del precedente Antiquarium Comunale che si trovava nel Palazzo Colonna. Il museo (dedicato allo scultore Mastroianni che ha risieduto a Marino e vi è morto nel 1998) ha sede nei locali dell’ex chiesa di Santa Lucia, un edificio religioso duecentesco che è una rara testimonianza di architettura gotica nella zona dei Colli Albani. Delle tre navate originali se ne conservano due. Sono caratteristici gli archi a sesto acuto della navata centrale, che si appoggiano su pilastri ottagonali in peperino.
L’antica chiesa, detta popolarmente “Chiesone” o “Tempio gotico”, sorge nei pressi della rocca medievale dei Frangipane, della quale rimangono solo due torri cilindriche in piazza Matteotti, mentre una terza è incorporata in un edificio ottocentesco. Secondo alcune fonti Santa Lucia sarebbe stata edificata intorno al 1100, sopra una cisterna del I – II secolo d.C., che in origine doveva rifornire di acqua l’antico municipium e che venne poi riadattata a luogo di culto cristiano.
La chiesa sarebbe stata restaurata nei primissimi anni del XIII secolo per volere di Giacoma de’ Settesoli, signora di Marino e amica di San Francesco d’Assisi. Un’importante ristrutturazione si ebbe poi nel XV secolo con i Colonna. La chiesa venne sconsacrata in seguito al crollo di una navata intorno alla metà del XVII secolo e utilizzata in seguito come fienile, filanda, cinema e perfino come ricovero per i sinistrati dell’ultima guerra.
Tra i reperti di epoca romana esposti al suo interno troviamo una statua muliebre, alta cm 165, che raffigura forse una Pudicizia (I-II secolo d.C.), una testa di Artemide del II secolo d. C. ma derivante da un tipo greco che si fa risalire al III a.C. e una statuetta in marmo bianco di divinità femminile acefala, seduta su un trono, sul tipo di Demetra, Cibele, Bona Dea o Iside Fortuna (I secolo d. C.).
Di bella fattura è una figura maschile nuda su quadrupede, in marmo bianco a grana fina, conservata solo in parte: è stata interpretata come Frisso sull’ariete, ovvero il mitico animale che lo trasporta in volo fino alla Colchide (lì l’ariete sarebbe stato sacrificato divenendo così il “Vello d’oro”, alla cui ricerca sarebbero partiti gli Argonauti). In questo caso sarebbe una rappresentazione rarissima del mito di Frisso, databile al III secolo d.C.
Un’altra figura maschile è quella di un satiro ebbro, raffigurato dormiente su una roccia. Un foro fa pensare a un suo riutilizzo come fontana da giardino.
Sono pure esposti due trapezofori (sostegni di un tavolo marmoreo) in marmo bianco raffiguranti due grifi alati accovacciati, dalle cui code partono dei girali. Altri elementi marmorei sono un rilievo con il volto di Medusa, un sarcofago con mostri marini e delfini, un frammento figurato di sarcofago, un blocco di fregio e architrave dalla decorazione a girali d’acanto.
Grazie al direttore Alessandro Bedetti, che ci ha fatto da guida, dalla chiesa-museo siamo potuti scendere nella cisterna romana che, anche se è stata oggetto di cambiamenti legati alla trasformazione in luogo di culto, ha mantenuto l’atmosfera tipica dei sotterranei scavati direttamente nella roccia. La cisterna si compone di un vano quadrangolare (largo circa 9 m e con un’altezza di m 3,70) con quattro pilastri portanti un sistema di volte a crociera. Un sistema idrico scoperto durante i restauri della chiesa superiore e una piccola vasca di decantazione sotto il foro all’angolo sud-est dell’ambiente testimoniano l’utilizzo dell’ambiente come riserva d’acqua, confermato dall’uso del cocciopesto (il tipico intonaco idraulico ottenuto dal trituramento di terracotta) come impermeabilizzante. L’unica apertura originaria rimasta è un oculo in peperino sul soffitto, forse riconducibile al sistema idraulico di adduzione.
Nel Medioevo, in una data imprecisata, in corrispondenza della parete est fu costruito un gradino che, oltre a conservare la traccia di un rocco di colonna sul quale poggiava verosimilmente un altare, reca infisso un tubulo in terracotta da ricondurre forse ai riti che vi si svolgevano. Nella parete nord furono aperte piccole finestre a gola di lupo per illuminare l’interno e agli inizi del XIV secolo, in concomitanza con il programma decorativo della chiesa superiore, la cisterna venne monumentalizzata. I gradini di accesso furono realizzati in marmo di recupero e sulla parete con l’altare furono eseguiti degli affreschi, dei quali rimangono poche parti frammentarie figurate (si possono individuare la Vergine Maria e Santo Stefano).
La presenza di un frammento di arredo cosmatesco nella muratura che obliterò l’ingresso sul lato nord farebbe pensare che tale obliterazione possa essere avvenuta in conseguenza della ristrutturazione della chiesa di Santa Lucia intrapresa nel XV secolo dalla famiglia Colonna. Alcuni resti di arredi cosmateschi e di ceramiche successive, che vediamo nella cisterna, sono stati trovati nel corso del suo restauro e sono dovuti al suo riutilizzo come discarica in seguito alla sconsacrazione della chiesa soprastante.
In realtà, molto di più che per questo complesso di sicuro interesse archeologico, Marino è famosa per il suo mitreo, uno dei meglio conservati d’Italia, situato a due passi dalla Stazione (in via Borgo Stazione, 12), non lontano dai resti di antiche murature romane, seminascosti dall’edilizia moderna (lo stesso mitreo si trova al di sotto di una costruzione degli anni ’60 del secolo scorso).
Parliamo di un luogo in grado di suscitare forti emozioni, perché ci catapulta nell’atmosfera rarefatta di un lontano passato, quando si affermò nel mondo romano il culto di Mitra, i cui riti misterici venivano praticati in ambienti tenebrosi che imitavano le grotte (spelaea), non di rado realizzati in edifici preesistenti.
Il Mitreo di Marino è venuto alla luce nel 1962 all’interno di una cisterna del I secolo a.C.- I d.C., che probabilmente serviva un’adiacente villa patrizia e in particolare un suo ninfeo; rimasto di fatto chiuso per via delle infiltrazioni d’acqua che lo rendevano poco accessibile è ora aperto al pubblico, dopo un’importante riqualificazione funzionale e tecnologica, inaugurata nel settembre 2021. Trattandosi di un luogo ipogeo estremamente delicato, con un altissimo tasso di umidità, la sua apertura è limitata a poche ore per alcuni giorni (visite guidate con prenotazione obbligatoria che prevede 15 visitatori per volta).
La cisterna era stata scavata in profondità nella roccia di peperino, allo scopo di contenere e conservare dell’acqua e, seppure riadattata a mitreo nel II secolo d.C., doveva accogliere solo pochi adepti per il tempo necessario alle celebrazioni rituali.
La sfida è stata quella di rendere “accogliente” il sito, con una prima sosta in un ambiente, un tempo utilizzato come cantina e ora adattato ad antiquarium. Vi sono esposti reperti venuti alla luce negli scavi del 2005, tra cui delle are con iscrizioni e frammenti architettonici di antefisse e di cornici modanate in marmi di pregio, frammenti ceramici di anfore e recipienti vari, come pure resti di animali erbivori e gusci di chiocciole.
Alcuni pannelli spiegano la storia del luogo e la religione mitraica, in particolare l’iniziazione ai misteri di Mitra che prevedeva sette livelli, ognuno posto sotto l’influenza di un pianeta. I gradi, i cui nomi ci sono pervenuti da una epistola di San Girolamo, erano Corax (corvo), Nymphus (sposo), Miles (soldato), Leo (leone), Perses (persiano), Heliodromus (auriga del carro del Sole), Pater (padre), abbinati rispettivamente con Mercurio, Venere, Marte, Giove, Luna, Sole e Saturno.Mitra, secondo il mito originatosi in ambiente indo-iranico e rielaborato nel mondo romano, sarebbe nato invincibile (Sol Invictus era uno dei suoi appellativi), con un pugnale in mano, da una roccia generatrice il 25 dicembre (solstizio d’inverno), giorno che diventerà poi il Natale di Cristo, e sarebbe stato assunto in cielo dopo aver ucciso un toro, simbolo di fecondità, per rendere possibile col suo sangue la rigenerazione del creato.
Una parte dello scavo del primo ambiente è a vista: si vede la scalinata originaria dalla quale si accedeva alla cisterna e la fistula per lo scolo dell’acqua. I gradini sono ora coperti da una moderna scala che ci introduce in una lunga galleria di 29 metri, al termine della quale si trova un magnifico affresco dai colori brillanti (realizzato a encausto) raffigurante Mitra tauroctono, ovvero il dio nell’atto di uccidere con un pugnale un toro bianco, secondo la consueta iconografia che lo riproduce con le vesti orientali, il mantello stellato svolazzante e la testa girata verso il Sole che è in alto alla sua sinistra, mentre in alto a destra è raffigurata la Luna. Accanto al Sole è un corvo nero che funge da suo messaggero. Ai lati in basso sono dipinti i due tedofori che sono associati a Mitra, a sinistra Cautes con la fiaccola alzata a simboleggiare la luce del giorno (e insieme l’aspetto primaverile del sole e la rinascita) e a destra Cautopates, con la fiaccola abbassata a simboleggiare la notte (e insieme l’aspetto autunnale del sole e la morte). Ai lati sono otto riquadri (quattro per lato) dipinti con scene relative alla storia del dio. Rappresentano in ordine: Giove che colpisce con i suoi fulmini i Giganti per ristabilire l’ordine cosmico, Saturno che simboleggia l’età dell’Oro, Mitra che nasce dalla roccia, armato di pugnale e con una fiaccola in mano, Mitra che doma il toro, Mitra che si carica il toro sulle spalle fino alla grotta dove avverrà il sacrificio, Mitra che colpisce con una zampa del toro il Sole (scena interpretata come iniziazione del Sole ai misteri di Mitra), Mitra che stringe un patto di alleanza con il Sole, Mitra che fa scaturire l’acqua da una roccia con una freccia, permettendo così il risveglio della natura.
Riguardo alla tauroctonia, dobbiamo precisare che alla base del mitraismo c’era la credenza in un complesso sistema astrologico, in cui i pianeti e i segni zodiacali erano divinizzati e instauravano con l’uomo un rapporto di fiducia e devozione. Mitra, ereditando dal dio Sole il compito di guidare la corsa dei pianeti, era pure descritto nell’atto di far ruotare gli astri nel cielo. Ma quest’ordine cosmico era il risultato della sua vittoria sul toro selvaggio. Con la sua uccisione, Mitra compie un atto di animazione del cosmo e si fa garante di salvezza eterna per i fedeli, come sottolinea una frase graffita nel mitreo romano di Santa Prisca: “Et nos servasti aeternali sanguine fuso” (“E ci salvasti attraverso l’aspersione del sangue eterno”, espressione che verrà ripresa da Sant’Agostino in un sermone riferendosi a Cristo).
Tutto il creato beneficia di questa infusione di vita, a cominciare dalla terra, e infatti dalla coda del toro morente spuntano le spighe di grano. Il serpente e lo scorpione (raffigurato mentre attanaglia i testicoli del toro), mandati dal dio del male Ahriman (che nella religione persiana detta mazdeismo si contrappone al dio del bene Ahura Mazda), cercano con il loro veleno di contrastare l’azione vivificante del sangue, ma inutilmente. C’è pure il cane che lecca la ferita del toro, presumibilmente per evitare che il sangue tocchi la terra. Secondo il mito, Mitra, dopo essersi purificato, festeggia la vittoria insieme al Sole con un banchetto, quindi sale in cielo sulla quadriga solare.
La rappresentazione della tauroctonia sembra alludere al ciclo della natura, quando a primavera, sotto la costellazione del Toro, la vegetazione rinasce dopo il gelo invernale e allo stesso tempo è una metafora del processo di rigenerazione dell’anima, che è alla base del culto.
Lo stesso sole muore al tramonto per rinascere il giorno dopo all’alba. La luce esiste perché illumina il buio: per questo Mitra viene adorato in una grotta, grotta che simboleggia anche la volta celeste e ricorda anche il luogo del sacrificio. Quanto agli animali raffigurati, essi richiamano le costellazioni di Canis, Hidria e Scorpius, mentre l’uccisione del toro sancirebbe la fine dell’era del Toro.
Questo mitreo particolarmente affascinante può essere confrontato in Italia con il mitreo Barberini a Roma e con quello di Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta, perché sono gli unici caratterizzati dal fatto che la rappresentazione sacra è dipinta, e non scolpita come negli altri mitrei. L’affresco del mitreo di Marino è quello meglio conservato ed è artisticamente superiore rispetto agli altri due. L’artista del mitreo di Marino riesce indubbiamente a trasmettere un maggiore pathos e ci colpisce per la raffinatezza dei volti dei personaggi raffigurati.
Dal punto di vista architettonico, contrariamente ad altri mitrei, il mitreo di Marino non ha conservato i banconi laterali sui quali prendevano posto i fedeli che partecipavano al rito officiato dal Pater e al banchetto sacro, perché evidentemente si trattava di strutture in legno e non in muratura. È stata individuata la linea di altezza dove dovevano essere collocati i banconi, che, essendo larghi almeno un metro per lato, dovevano lasciare uno stretto passaggio al centro.
Conserva invece un’ara centrale in peperino con epigrafe del dedicante, Cresces, al dio “invicto” e su una parete è leggibile un’iscrizione con un nome femminile. Un caso rarissimo questo, perché il mitraismo era praticato secondo molti studiosi solo dagli uomini, e in particolare dai soldati, in quanto Mitra era il dio garante dei giuramenti e ci si aspettava da lui un aiuto in battaglia. Ma a Marino il mitraismo aveva probabilmente tra i suoi seguaci, più che i soldati, gli operai addetti a scavare la pietra nelle vicine cave di peperino (l’antico lapis albanus).
Questa religione, dalla potente carica etico-salvifica, ebbe in effetti un certo successo anche tra gli operai e i liberti, spesso di origine straniera, che nella religione ufficiale romana sentivano la propria inferiorità, mentre nel dio nato e venerato in una grotta, che elargiva la sua grazia agli iniziati secondo una gerarchia religiosa e non sociale, vedevano il loro dominus in grado di offrire loro una speranza di rinascita. Quanto alle donne, si potrebbe ipotizzare che potessero aderire alla religione, ma senza avere un ruolo attivo.
Nella lunga galleria del Mitreo di Marino non è più percepibile la distinzione tra il vestibolo (dove sostavano quelli che non erano ancora ammessi al culto) e il mitreo vero e proprio, ma la si intuisce dalla presenza dei due tedofori raffigurati sulle pareti, poco prima di un cancello o di una tenda che doveva separare i due settori. Sappiamo che gli adepti dovevano sostenere delle prove di iniziazione legate ai diversi gradi, e forse in alcuni casi un battesimo di sangue.
In realtà del mitraismo romano sono pervenute scarse notizie, oltretutto da parte di scrittori cristiani prevenuti contro quella religione. Tertulliano, uno dei più noti padri della Chiesa del II-III secolo, definisce i luoghi di culto mitraici “castra tenebrarum” (accampamenti delle tenebre, in contrapposizione ai “castra lucis” dei cristiani), evidenziando l’organizzazione dei fedeli in milizie sacre e l’oscurità degli ambienti di culto: scelta questa che veniva giudicata contradditoria rispetto alla natura essenzialmente solare del dio.
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