“Siamo l’unica specie narrante, l’unica del pianeta di cui abbiamo riscontro che si trasferisca le storie di generazione in generazione”, scrive Michela Murgia in una intervista che sto leggendo ora.
Parole che mi fanno riflettere.
Alzo gli occhi dal testo e penso che c’è un momento in cui questa narrazione si interrompe. Quel momento si chiama Alzheimer.
Questa malattia blocca, modifica, storpia e lacera ogni cosa, ogni storia, ogni narrazione.
Demenza significa entrare in una dimensione dove chi sei, chi eri, chi vorresti essere, non esiste più. Una dimensione che cancella i ricordi, svuotata i pensieri, toglie le parole.
Ruba la vita, eppure è Vita, ruba la speranza eppure è Speranza.
Con le giuste tecniche, con la giusta stimolazione, con i corretti ausili, la narrazione continua anche dopo la diagnosi della malattia.
Sebbene non esista una cura, il mondo scientifico concorda su due punti cardine per vincere, se non la guerra, almeno la battaglia: terapia personalizzata e socialità.
Perché c’è una cosa che uccide la narrazione prima ancora della malattia: l’isolamento. Sfortunatamente, quando si tratta delle malattie a carattere neurodegenerativo o cognitivo, la solitudine diventa quasi un’ovvietà.
Isolamento politico: i malati di demenza, spesso, non votano quindi non sono “interessanti”. Per una politica fatta solo dal desiderio di “estorcere l’ultimo voto”, i malati di demenza non servono.
C’è ancora chi confonde i programmi per “l’invecchiamento attivo” (per intenderci i “nonni vigile”), con i progetti a favore dei malati di Alzheimer.
Ve lo immaginate, voi, un malato di demenza mentre gioca a bocce, o mentre lavora con un coltello?
Evidentemente, qualcuno ci riesce.
Nell’invecchiamento attivo le persone sanno parlare, sanno difendere i propri diritti, e, soprattutto, votano. Le malattie neurodegenerative non consentono questo. Nella demenza si è completamente dipendenti da altri: altri parlano per te, altri scrivono per te, altri difendono i tuoi diritti.
Una politica che ignora, che rimanda al futuro gli interventi a tutela dei malati di Alzheimer, è una politica inutile. È una politica che scarica sulle spalle dei familiari questo problema.
I caregiver vivono una situazione totalizzante perché sono coinvolti a tempo pieno sia fisicamente sia psicologicamente nella malattia del loro congiunto. Una situazione troppo pesante che, spesso, provoca altro dolore, altra malattia, altro isolamento.
Il secondo elemento che rende ardua la lotta a questa patologia è l’isolamento sociale.
Loro, i malati di demenza, ci ricordano troppo quello che siamo, quello che potremmo diventare. E non ci piace
Ci ricordano che le malattie che riguardano il cervello portano uno stigma sociale, un terrore arcaico, di cui noi, gente “normale”, siamo “portatori sani”.
“Le demenze riguardano i vecchi, non noi”; “Spero di morire prima”. Quante volte ho sentito pronunciare queste inutili, assurde frasi.
Le demenze, nel loro complesso, non sono legate all’età. Ovviamente, l’età identifica i soggetti a rischio ma, troppi misteri, troppe domande senza risposta, governano questo mondo.
Il mondo dei soggetti giovani esiste, numeroso, silenzioso nel suo isolamento.
Luca Nuti aveva solo 48 anni, aveva una splendida moglie e una splendida vita, ma morì, a 48 anni appunto, di encefalopatia spongiforme sporadica, un tipo di demenza.
Luca vive nell’associazione a lui dedicata per la lotta alle malattie neurodegenerative di origine prionica ma, troppi casi, sono lì, sconosciuti, isolati, in attesa di una speranza.
Far finta che queste malattie non esistano o che appartenga ad altri è un errore.
Si stima che, a livello mondiale, nel 2015, ci fossero 46,8 milioni di persone affette da una forma di demenza (in Italia oltre 1 milione e 200mila). Cifra destinata quasi a raddoppiare in 20 anni.
La demenza è al 5° posto come causa primaria di morte, era al 9°posto nel 2003.
Numeri che devono farci riflettere prima ancora di spaventarci, perché interessarci ad esse significa occuparsi del nostro futuro.
In Inghilterra l’intera Famiglia Reale è scesa in campo per combattere lo stigma sociale verso le malattie mentali e neurodegenerative. Considerando la popolarità e lo stile della Regina Elisabetta, forse non è così “politicamente inutile”.
Katia Dal Gesso