L’intervista alla Dott.sa De Benedictis, responsabile del Centro di referenza nazionale per la rabbia.
Sebbene sia una malattia antichissima, la rabbia spaventa ancora. È per questo che oggi 28 settembre, come ogni anno da 15 anni a questa parte, ricorre la Giornata mondiale contro la rabbia.
Classificata fra le malattie tropicali neglette, la rabbia è una encefalite virale zoonosica che provoca ogni anno quasi 60mila vittime umane. A essere colpiti sono in particolare modo i bambini di età inferiore a 15 anni.
È doveroso sottolineare che in Italia è stata completamente debellata grazie a una massiccia prevenzione, ma in diverse parti del mondo è ancora una piaga attualissima, tanto che la campagna #worldrabiesday invita ad agire attivamente per il controllo della rabbia canina e il raggiungimento dell’obiettivo di nessun decesso umano da rabbia trasmessa dal cane entro il 2030 (#ZeroBy30).Tutti possiamo collaborare a vari livelli per prevenire la rabbia. La cosa fondamentale è essere informati.
Perché, come si trova scritto nel sito ufficiale rabiesalliance.org , notizie false e cattiva informazione possono influenzare negativamente tutti gli sforzi di eliminazione della rabbia.
A questo proposito abbiamo parlato con Dott.sa Paola De Benedictis, medico veterinario dirigente presso il Laboratorio di Zoonosi virali dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) e responsabile del Centro di referenza UN-FAO e del Centro di referenza nazionale per la rabbia.
Dott.sa De Benedictis, come è la situazione attuale in Italia e nello specifico nel nord-est?
È una situazione di tranquillità dal punto di vista epidemiologico, perché l’Europa ha investito molto per debellare questa malattia veicolata da animali selvatici, principalmente dalla volpe rossa. Ci sono stati quasi 50 anni di vaccinazione orale in varie aree geografiche dove esisteva la malattia fino ad eradicarla. L’ultimo caso riscontrato nel nord-est Italia si è verificato nel febbraio 2011. Il monitoraggio è stato continuo e dal 2013 abbiamo dichiarato lo stato di indennità in Italia e abbiamo ottenuto anche lo stato di indennità europeo. La sorveglianza continua a essere serrata e dobbiamo ritenerci tranquilli.
Esistono, però, aree geografiche fuori dall’Europa come Asia, Russia, Ucraina dove la malattia circola ancora a causa della vastità dei territori, ma anche delle diverse tipologie di razze di animali.
La situazione ora è ottimale in Italia, dobbiamo aspettarci un’inversione di tendenza o possiamo stare tranquilli?
C’è una grandissima spinta da parte organismi internazionali, organizzazioni non governative, ma anche comunità. L’obiettivo è di arrivare al raggiungimento di zero decessi umani per rabbia trasmessa da cani entro il 2030 attraverso le vaccinazioni. La tendenza in Europa non cambierà, anzi si spera si creino sempre più regioni di stato di indennità dalla rabbia stessa, in particolare della rabbia canina.
Perché si parla ancora di rabbia nel 2021?
È una malattia antichissima ed è stata una delle prima malattie per cui si è scoperto il vaccino sia per animali che gli uomini. Inoltre, per quanto riguarda l’uomo siamo muniti anche di un’ulteriore arma, il siero iperimmune, in caso di possibile esposizione.
È una malattia che sta a metà tra la veterinaria e la prevenzione umana. Solo in Italia i veterinari fanno parte integrante della sanità, ma nel resto del mondo i veterinari dipendono dal ministero dell’Agricoltura e Allevamento, mentre fa capo alla sanità solo la componente medica di questa malattia. Non coinvolgendo animali da reddito, risulta quindi di scarso interesse per il Ministero.
Chi lavora nel settore ritiene che i decessi mortali di rabbia siano una vergogna perché si tratta di una malattia prevedibile, tuttavia è annoverata tra quelle cosiddette neglette. Ci sono pochi fondi stanziati per combatterla e purtroppo la maggior parte degli Stati endemici sono nel sud del mondo, caratterizzati da basso reddito pro capite e problemi sanitari molto grandi (malaria, dengue) e spesso soggetti a guerre. In questi ultimi due anni a causa della pandemia, sono saltati diversi progetti pilota, ma ci auguriamo di raggiungere presto l’obiettivo fissato per il 2030. Negli stati dell’America Latina, per esempio, dopo una situazione endemica molto significativa, si sono ottenuti importanti risultati.
Lorenza Raffaello