Ricorderò sempre le parole della mia defunta prozia, mentre mi preparava la merenda quand’ero bambina: “Mi raccomando, studia, studia, studia!”. La mia prozia, non avendo avuto la possibilità nemmeno di finire la quinta elementare, e dopo una vita di duro lavoro, era fermamente convinta, come qualsiasi altro individuo della sua generazione, di essere nel giusto. E da brava bambina, la ascoltai. Fini le elementari, poi le medie, poi il liceo e pure l’università, con tanto di lode. E studiare è stato sufficiente ad assicurarmi un buon lavoro, come la mia prozia avrebbe tanto desiderato? Proprio per niente. Facciamo qualche passo indietro e guardiamo a questa generazione di altamente competenti come me. Ciò che la mia prozia, e nemmeno io, avevamo del resto considerato, era che il mondo stava cambiando.
Le persone nate tra il 1980 e il 2000, i cosiddetti Millennials, ossia la generazione a cui appartengo, costituiscono la generazione più istruita di sempre. Non esiste altra occasione nella storia in cui una generazione abbia ricevuto un’istruzione così ampia e che abbia potuto vantare così tanti titoli di studio. Sono pochi i miei amici senza una laurea, e nonostante ciò, sono ancora meno coloro che possono vantare un posto di lavoro dignitoso. E normalmente, quelli con un lavoro dignitoso ancora vivono con i genitori. Quindi, secondo la logica economica a cui siamo siamo abituati, e alla quale la mia prozia mi ha educata, tali titoli e innumerevoli anni spesi sui libri dovrebbero arrecare sicurezza, o almeno vantaggi, come salari alti, un lavoro stabile o benessere crescente. E invece, niente affatto. “Ogni tipo di autorità – dalle madri ai presidenti – ha raccomandato ai Millennials di accumulare più capitale umano possibile” sembra concordare con me Malcom Harris quando ha scritto queste parole in Kids these days: human capital and the making of millennials. “E noi l’abbiamo fatto. Ma il mercato non ha rispettato la sua parte dell’accordo. Cos’è successo?”. Casper Thomas riesce a darci qualche risposta soddisfacente a questo quesito quando indaga approfonditamente sulla questione nel suo articolo “Dalla parte dei trentenni” apparso a febbraio su Internazionale.
Innanzitutto, ci dice Thomas, se i Millennials sono la prima generazione da molto tempo a questa parte a essere più povera di quella precedente, solo alcune delle cause da considerare sono che i ventenni e trentenni di oggi devono fare mediamente i conti con salari che crescono di meno, con una minore capacità di accumulare patrimoni e con risparmi più scarsi per la pensione. Inoltre sono più indebitati. La colpa è anche dovuta ai cambiamenti demografici, dato che la crescita della popolazione rallenta dagli anni Cinquanta. Thomas usa una metafora convincente per descrivere la situazione: la società attuale ha assunto l’aspetto di una carrozza su cui viaggiano le persone che hanno vissuto il momento di massimo splendore del benessere occidentale. La carrozza è trainata a fatica da un gruppo più esile e anche meno numeroso. E chi è fortunato viene ricompensato dai genitori, dato che una parte della ricchezza riesce, attraverso i legami familiari, ad arrivare alle generazioni successive sotto forma di prestiti, donazioni ed eredità. E così i Millennials ereditano una società con più disuguaglianze. Inoltre, scommetto che a livello personale, qualsiasi giovane preferirebbe potersela cavare da solo. La sensazione di essere in grado di diventare persone di successo, senza essere costantemente aiutati, forse vale molto di più dei benefici materiali che riceviamo continuamente da chi è stato più fortunato di noi.
La nostra possibilità di essere indipendenti e soddisfatti si scontra però con un grande muro con cui molti di noi hanno familiarità: il lavoro precariato. Del resto, nella nostra società capitalista, in particolare dopo la crisi del 2008, le scarse prospettive di trovare un buon posto di lavoro sono usate per convincere i giovani a offrire il loro lavoro gratuitamente o quasi. “In un mercato del lavoro in cui una lettera di raccomandazione e una voce sul curriculum valgono tanto, noi Millennials siamo disposti a dare via l’unica cosa che abbiamo: il nostro tempo e la nostra energia”, scrive Harris.
Del resto, per crescere, il capitalismo cerca di continuo nuovi mercati ed escogita trucchi per contenere i costi e aumentare la produttività. Farci lavorare duramente e assumerne pochissimi fa parte della strategia, così come limitare i nostri diritti, farci indebitare o non pagarci in proporzione a ciò che diamo. Del resto, come me, ce ne sono centinaia, migliaia e anche milioni. Parlo di forze fresche, con alte competenze, disposte comunque a lavorare gratuitamente, pronte all’uso e con un futuro ipotecato, che lavoreranno senza lamentarsi. Come osserva Thomas, “chi ha un creditore che viene a bussare ogni mese, non si licenzierà per lanciarsi in un’avventura incerta”. Mai stata tanto d’accordo. Recentemente mi è capitato di discutere con un amico di famiglia sull’etica del lavoro, dato che era intento a organizzare un convegno su questo tema con imprenditori da tutto il mondo. Egli sosteneva che l’etica del lavoro fosse venuta a mancare recentemente con l’avvento del capitalismo. Se fosse così, ho ribattuto, non ci sarebbe mai dovuta essere disuguaglianza economica nella storia, o la schiavitù, tanto per fare un esempio. E invece, basta aprire un qualsiasi libro di storia per notare che ce ne è stata, e tanta. Nonostante la discussione accesa con cui abbiamo annoiato gli altri ospiti, su un punto però eravamo entrambi d’accordo: solo un rafforzamento dell’etica e dei patti sociali che controllino le aziende e che garantiscano il welfare possono aiutare i Millennials e le generazioni che verrano. E magari, dare finalmente una possibilità alla mia prozia, di essere nel giusto.
* Per più informazioni, consiglio di leggere l’articolo “Dalla parte dei trentenni” di Casper Thomas apparso su De Groene Amsterdammer.